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Chris Colfer, l’autore, è ancora più conosciuto con il nome di Kurt Hummel, personaggio che interpreta nella serie televisiva “Glee”.

Sono sincera, sono una grande appassionata di questa comedy americana, per lo straordinario talento dei suoi interpreti, ma soprattutto perché va a toccare una serie di corde verso cui sono particolarmente sensibile, non ultima il coraggio di credere nei propri sogni e di seguire il proprio cuore, anche quando la strada verso cui ti indirizza non è delle più facili e soprattutto delle più accettate.

Detto ciò, non significa che sono pronta a fiondarmi in libreria per qualunque cosa uno degli attori decida di mettere nero su bianco. Al contrario, in questi casi il mio naso si storce facilmente.

Questo ragazzo in particolare però, che in età più giovane della mia ha già fatto grandi cose (lo dichiaro con palese invidia), ha sempre stimolato il mio interesse.

Quando Chris Colfer si è presentato a sostenere il provino, Kurt non esisteva affatto nella sceneggiatura originale di “Glee”.

Gli autori della serie hanno visto qualcosa in lui che li ha convinti non solo ad ammetterlo nel cast, ma anche a creargli un personaggio su misura.

Quando la stessa persona si getta poi nel mondo della letteratura con un’opera particolare come un libro di fiabe, pensi che davvero valga la pena scoprire quello che ha dentro. Credo che infatti ogni artista metta qualcosa di sé nella propria creatura.

Quello che però mi ha definitivamente conquistata, nel mio vagare tra gli scaffali della libreria, è stata la citazione di C. S. Lewis che è stata inserita nella pagina che precede l’inizio del racconto: “Some day you will be old enough to start reading fairy tales again” (un giorno sarai grande abbastanza da cominciare di nuovo a leggere le favole).

Colpita e affondata.

Il testo poggia su basi molto solide e collaudate, quali le fiabe di Andersen e dei fratelli Grimm.

Le influenze, dichiarate e non, sono molte e ben evidenti. Quando una persona è ancora così giovane e in pieno corso di formazione credo che la cosa sia inevitabile.

A ciò che è stato già raccontato Colfer aggiunge però anche un po’ di farina del suo sacco, rivelandosi un autore che, quando sarà maturo e se continuerà a scrivere, avrà molto da raccontare.

Terminata la lettura, il mio interesse nei confronti del ragazzo si è ancora accresciuto.

La sensazione che si ha sempre più forte di pagina in pagina, è che l’autore stesso provi il desiderio di vivere lui in prima persona le avventure dei propri protagonisti.

Che Alex e Conner siano i due aspetti della sua personalità? Un’ipotesi personale e sicuramente azzardata, tuttavia non impossibile.

Il giornalista di “USA today” che ha definito il mondo di Colfer più magico di quello di Disney mi sa che di Disney ha capito molto poco (volendo esprimersi finemente), ma è vero anche che il libro è piacevole, ben costruito, dolce… E magico.

Letto in lingua originale rappresenta inoltre un ottimo esercizio per l’inglese, perché il linguaggio usato è semplice e lineare.

Spero che la fama di Chris Colfer porti i bambini e gli adulti di oggi a mettere da parte computer e videogiochi per qualche ora al fine di riscoprire le vecchie fiabe, che, come ci ricorda l’autore stesso, non sempre hanno un lieto fine, ma hanno sempre tanto da insegnare.

tumblr_m7lseiHPgs1qau977o1_1280

mondadori_-_guida_galattica_per_gli_autostoppistiUna geniale ed esilarante fusione di fantascienza e humor.

Adams sembra essersi seduto qualche mese in un bar altamente frequentato ad osservare il traffico di esemplari (almeno teoricamente) sapiens, per poi riunire tutte le contraddizioni e le stravaganze umane in un libro.

Ne ha trovata una tale abbondanza da averci creato un intero universo. Eh beh.  Stupore cercasi.

E’ noto, la definizione di “universo”, descrive un qualcosa di estremamente grande.

Ora, supponiamo qualcuno desideri farsi un giretto turistico del suddetto universo: il viaggiatore medio ha limitate disponibilità di tempo (le ferie sono quelle che sono, noi gente degli anni 2000 ne sappiamo qualcosa), per cui gradisce ottimizzare quello a sua disposizione. Ma soprattutto è uno squattrinato (argomento su cui siamo ancora più ferrati).

E’ così che nasce la “Guida galattica per autostoppisti”.

L’autostoppista infatti è il povero tra i poveri. O il tirchio tra i poveri, dipende. Chiamiamo quest’ultimo risparmiatore per evitare incidenti diplomatici di sorta.

Ma stavamo parlando della “guida”; essa è quindi un fondamentale tomo ricco di nozioni culturali e indicazioni sui migliori ristoranti della galassia.

Sulla sua copertina, la prima regola fondamentale per il viaggiatore dello spazio: “Non fatevi prendere dal panico”, reazione papabile per un individuo che si trovi faccia a faccia con l’immensità e la varietà del cosmo.

Il fatto che la maggior parte delle informazioni in essa contenute sia erronea non è che un dettaglio.

Una meravigliosa pentalogia di romanzi il cui punto di forza non risiede tanto in un filo narrativo centrale, che è assai elementare, quanto in ciascuna delle sue frasi.

Esse sono espressione di una tale stupidità che è impossibile non farsi scappare continue risatine del genere “ehehehehehehe”, accompagnate da relativo movimento lievemente sobbalzante delle spalle.

La fiera della demenza, ma in senso positivo. Non c’è niente di più sano di una risata.

Va detto, se è vero che i primi libri sono splendidi e brillanti, è vero anche che gli ultimi, pur rimanendo letture di qualità, perdono un po’ di smalto e sono decisamente più poveri di humor.

Il volume è una raccolta di cinque libri (originariamente episodi per la radio); vi è quindi la possibilità di godersi tutte insieme le avventure di Arthur Dent e  Ford Prefect, ma ritengo a posteriori che la scelta di affrontarne uno alla volta  porti ad una maggiore godibilità dell’opera, anche perché rappresentano una piacevole pausa da letture magari più impegnative.

Ho appena scoperto che dal primo romanzo: “Guida galattica per autostoppisti”, è stata tratta una versione cinematografica datata 2005 e avente come protagonisti Martin Freeman e Zooey Deschanel. Amo questi due attori e amo la guida. Tempo poche ore e avrò tirato un pedatone a libri e appunti di preparazione del prossimo esame in favore della visione del film, me lo sento.

A tutti i lettori, un saluto dalla Terra, pianeta “praticamente innocuo”.

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“A Storm of Swords” è il terzo libro appartenente alla saga de “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” e che la Mondadori, nella versione italiana, ha sezionato nei tre volumi “Tempesta di spade”, “I fiumi della guerra” e “Il portale delle tenebre”.

Il titolo, piuttosto ingannevole, porterebbe a pensare ad una prosecuzione della trama fortemente incentrata sulla guerra in atto tra le varie casate dei Sette Regni, quella che ha avuto inizio con la morte di Re Robert Baratheon e la decapitazione pubblica di Ned Stark.

Di fatto però la guerra, pur continuando a essere combattuta, più che da protagonista, fa da sfondo ad una moltitudine di vicende che potremmo impropriamente definire “minori”.

Impropriamente perché attraverso le vicissitudini a cui va incontro ogni singolo protagonista, l’autore complica il quadro generale ai limiti dell’immaginabile.

Ancora? Possibile? Incredibilmente si. E non poco.

Da un punto di vista di ritmo narrativo, il libro è formato da due parti: una  più “quieta”, in cui la narrazione riprende le vicende dal punto in cui erano state lasciate col secondo volume,  mantenendone inalterato l’andamento.

Si approfondiscono ulteriormente i caratteri di alcuni personaggi (che Martin ha saputo rendere straordinariamente complessi e interessanti, indipendentemente dalla loro simpatia o dal loro schieramento), viene svelato qualche dettaglio in più sul loro passato.

Poi il cambiamento. Improvviso, brusco, inaspettato.

La seconda parte è come un attacco di follia del suo autore; una continua esplosione di colpi di scena tali da lasciare il lettore in uno stato confusionale, in cui altalena tra il bisogno spasmodico di andare avanti con la lettura e sapere altro, e la necessità di fermarsi, prendere una pausa per metabolizzare ciò che è appena accaduto.

Il tutto culminante in un finale che lascia attoniti anche i più fantasiosi.

Un Martin sempre più sorprendente e crudo, tanto da arrivare talvolta a esagerare, sforando nella volgarità gratuita e non necessaria.

Spietato nei confronti dei suoi personaggi, scrive come se non si fosse minimamente affezionato a nessuno di loro. Con la potenza e l’arroganza di una divinità pagana, gioca con le loro sorti, li mette continuamente alla prova.

Dopo avergli fatto scalare montagne di difficoltà e averli quasi annegati in oceani di disperazione, li porta fino sull’orlo di un baratro e lì, dall’alto della sua potenza di scrittore, li osserva, decidendo se dare un’ultima spinta o permettere che abbiano ancora una parte in questo spietato “gioco del trono”.

Nel 1916 l’Unesco ha istituito la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, celebrata ogni anno da allora in data 23 aprile.

Molte feste oggigiorno sono associate solo al loro risvolto consumistico, basti pensare a San Valentino, altre invece, passano del tutto inosservate.

Le informazioni su questa particolare ricorrenza, sulla sua origine catalana, sono facilmente reperibili su Google, ritengo inutile un lavoro di copia-incolla.
Quello che a me importa è ricordare la sua esistenza.
Festeggiare il libro significa festeggiare la conoscenza, l’arte,  i sogni, le emozioni, il linguaggio. La cultura.

Oggi più che mai credo che abbiamo bisogno di celebrare questo vecchio amico e antico portatore di valori.

Oggi che la cultura è solo un’inutile spesa da tagliare. Oggi che la conoscenza è un lusso. Oggi che  i sogni devono lasciar spazio alla sopravvivenza.

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“The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore” è il corto d’animazione diretto da William Joyce e Brandon Oldenburg, uscito vincitore dall’edizione 2012 degli Academy Awards.
Risultato di numerose tecniche grafiche e computerizzate, nonché frutto di numerose ispirazioni, dal Mago di Oz all’uragano Katrina (il protagonista vive a New Orleans e viene trasportato in un mondo fantastico da un uragano), questo meraviglioso corto non può non toccare il cuore dei lettori appassionati.

E’ infatti proprio l’intenso rapporto tra libro e lettore che William Joyce ha esplorato con questa sua piccola opera.

Chi ama la letteratura sa che un libro non è solo un oggetto inanimato, ma una grande ricchezza, un amico pronto a darti tutto se stesso.

Come accade a Mr. Lessmore, al quale, dopo l’uragano, non è letteralmente rimasto più nulla, perfino il romanzo che stava scrivendo si è perso nel vento.

Ma tante pagine animate sapranno come restituire colore ad un uomo in bianco e nero.

978880617948MED “MISERABILE“.

Una parola che non è solo un titolo, ma è la pura essenza di tutto il romanzo. Termine che si ripete incessantemente, martellante, pagina dopo pagina. Insegue il lettore, non gli dà pace.

Esso viene usato in tutte le sue possibili accezioni.

Miserabile è una condizione di vita. Miseria è povertà, è scarso valore materiale, ma è anche un connotato morale. Miserabile è un individuo meschino, ma lo è anche un individuo sfortunato, degno di compassione.

Ognuna di queste sfumature dello stesso termine prende vita nel romanzo di Victon Hugo, all’interno del quale si fa personaggio. Miserabile è infatti la povera Fantine,  fanciulla divenuta prostituta per un errore d’amore e condannata dal pregiudizio; lo è anche Javert e pure i terribili locandieri Thenandier e la loro figlia Eponine, e così Marius,  Cosette…  Ciascuno in modo diverso, ma tutti “miserabili“.

Ma è il forzato Jean Valjean ad essere il miserabile per eccellenza . Il protagonista assoluto di questo tormentato resoconto della condizione umana che è l’opera di Hugo, nel corso della sua esistenza, vive e attraversa ogni tipo di miseria.

Egli è un personaggio di estrema intensità e complessità. Uno dei più belli che la penna di uno scrittore abbia mai creato.

Destinato a non trovare mai pace, ogni volta che, non il suo spirito, ma almeno la sua vita, sembra aver trovato una parvenza di stabilità, tutto si sconvolge di nuovo. In eterno conflitto interiore con sé stesso, luce e ombra duellano costantemente dentro di lui, sottoponendolo a prove durissime e incessanti.

A ostacolare (volendo usare un eufemismo) un grande protagonista, Hugo pone un altrettanto complesso oppositore, l’ispettore Javert. Uso il termine oppositore perché ritengo quello di antagonista troppo forte: include una sfumatura di cattiveria che non è propria di questo personaggio. Javert non è cattivo, è inflessibile. Il suo compito è quello di far rispettare le leggi e di punire chi non lo faccia. Nella sua ottica, il reato è reato, non importa quali siano le circostanze in cui avviene. Non esistono per lui sfumature di gravità. Non esistono attenuanti. La legge è un valore assoluto.

La loro è una lotta che va molto al di là della canonica opposizione protagonista – antagonista, dove la separazione tra giusto e sbagliato non è più così netta e il galeotto diventa l’innocente e l’ispettore si fa persecutore.  Pura meraviglia letteraria.

“I miserabili” non è una lettura facile, ma per chi abbia il coraggio di affrontarlo diventa indimenticabile, entra a far parte dell’anima.

Non è facile perché Hugo è pignolo, maniacale nel dettaglio, tanto da mettere in difficoltà il lettore, che non riesce a trovare spazio per la propria immaginazione.

Pignolo e logorroico. Non introduce personaggio, grande o piccolo che sia, senza descriverne minuziosamente tutti gli aspetti fisici e caratteriali, senza raccontarne la storia personale che precede il suo prender parte alla vicenda. Non nomina luogo o evento storico senza dedicargli pagine e pagine di approfondimento.

Accade così che ad un certo punto l’autore decida di lasciare per un po’ di tempo le avventure di Jean Valjan, per condurti a Waterloo ad osservare da vicino lo svolgersi di tale celebre evento.

Quando finalmente abbandoni il campo di battaglia, sono passati ormai abbastanza capitoli da averti convinto di esserti dedicato alla lettura di un trattato sulla vita di Napoleone e il tornare a seguire le vicende del vero protagonista della situazione, invece che quelle del nano più famoso della storia, provoca quasi un attimo di confusione mentale.

Ma per la fortuna dei meno pazienti e dei “faticon”i, il signor Hugo è anche molto ordinato e racchiude le sue amate digressioni all’interno di libri a sé stanti, che permettono di giocare al salto del capitolo.

Non è facile perché ogni pagina è intrisa di umana sofferenza. Eppure, a diversamente da quanto accade per Notre Dame de Paris, alla fine, si riesce a vedere una luce in fondo al tunnel, a fatica, ma la felicità può essere raggiunta.

Imperfetto, come lo sono tutti i capolavori.

Per chi ama leggere, una delle letture più importanti della vita.

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Bridget

Lunedì, uno di quelli grigi e piovosi tipici di novembre, in cui il tuo unico desiderio, per non parlare proprio di istinto, è quello di rimanere in stato letargico, protetta da una soffice tana di piumone. Nel mio caso due piumoni. Superfluo dire che invece ovviamente devi uscire, causa lezione con obbligo di frequenza. Evviva.

Quindi esci: traffico disumano, nonne centenarie a piedi ti superano facendoti le pernacchie. Dopo tempo indefinito, raggiungi la stazione, riesci a prendere il treno, che però non parte. Mentre attendi che il poderoso, moderno mezzo di trasporto si attivi, una ragazza giapponese ti viene in contro con un sorriso a 133 denti porgendoti il suo cellulare rosa. La guardi con aria interrogativa. Continua a sorridere e a porgerti il cellulare, facendo segno di si con la testa. Prendi il telefono e ti ritrovi a dare indicazioni ad un tipo che ti parla mezzo in italiano e mezzo in giapponese. Terminata la singolare esperienza, il trabiccolo finalmente si muove. Arrivi alla fermata del bus per l’università alle 14.06, peccato per la partenza prevista per le 14.05. Bus successivo? Alle 14.45.  Allora decidi di prenderti un caffè per svegliarti e ripararti dalle intemperie. Prima la simpaticissima barista tenta di darti un resto minore di quello che ti spetti, poi ti schiaffa malamente davanti un caffè normale dopo che glielo avevi chiesto macchiato in tazza grande (problemi da italiani).

Quando finalmente arrivi a lezione, te ne sei già persa mezza, hai i pantaloni fradici perché, ehehehehehehe, pioveva a vento, e i tuoi capelli sono in uno stato tale che ti aspetti che da un momento all’altro ti piombi addosso una scimmia urlando “Simba, sei vivo!”

Mi fermo qui.

Molto bene, simpatica ragazza, mi dispiace davvero che tu sia così sfigata, ma non dovevamo parlare di libri?

Il punto è che la forza dell’opera di Helen Fielding sta proprio in questo: non in mirabolanti avventure, intrecci di storie, colpi di scena, o misteri ma nel fatto che è tremendamente facile sentirsi come Bridget Jones. Cioè? Uno sfortunato disastro ambulante.

Bridget infatti non ha niente dell’eroina dei vecchi romanzi che ci piacciono tanto, non ha un carattere costruito e complesso, al contrario.  E’ la pasticciona imbranata che si nasconde in ogni donna.

Ne deriva una lettura semplice ma allegra, perfetta anche per fare un po’ di esercizio di inglese.

Sentirsi come la protagonista è talmente facile che, a quando pare, qualcuno ha cercato di adottare il suo stile di vita, probabilmente nella speranza di trovarsi a rincorrere in mutande nella neve un meraviglioso Colin Firth. Cito il fondo della copertina del libro: “HEALTH WARNING:Adopting Bridget’s lifestyle could seriously damage your healt”.

Cara Bridget, pensa, c’è qualcuno che forse è messo peggio di te!

Film Title: Bridget Jones: The Edge of Reason
*handout*

CAOS, puro caos.

E’ così che “Il regno dei lupi” e “La regina dei draghi”, terzo e quarto libro della saga de “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” secondo Mondadori, in realtà un unico volume (“A clash of kings”) nell’edizione originale, potrebbero essere riassunti.

La morte di Robert Baratheon, sovrano dei Sette Regni innesca un perverso meccanismo di caotica e folle lotta per il potere che dilaga come un’epidemia di peste. Colpisce tutti, in maniera indiscriminata, annebbiando le menti, rompendo vincoli familiari, di amicizia e lealtà. Genera odio, tradimento, sangue, inganni, violenza, perversione. Morte. E sembra destinata solo ad aumentare.

In questo nuovo capitolo della straordinaria saga partorita dalla mente di George R. R. Martin non c’è spazio per l’amore. I lord del sud, del nord, dell’est e dell’ovest aspirano solo a sedersi sul trono di spade e a dominare sugli altri. Ed ecco che spuntano re come funghi dopo la pioggia:re Joffrey, re Stannis, re Renly, re Robb e, perchè no, re Balon.

Stark e Tully contro Lannister, Baratheon contro Baratheon, Greyjoy contro Stark alla conquista del nord… Solo per citare alcuni degli infiniti schieramenti. I Lannister, dal momento che sono naturalmente privi della capacità di rendersi popolari, sono odiati da tutti, ma questo non è un motivo sufficiente per rendere amiche ed alleate le altre casate. Per l’ebrezza della corona, si sopportano anche gli antipatici.

In mezzo a tutto questo macello, anche i Bruti cominciano ad organizzarsi per partecipare a questo party esclusivo. Dopo un’intera esistenza a vivere selvaggiamente nei territori oltre la barriera, hanno anche loro una gran voglia di conquistarsi una bella fetta di torta. Per la gioia dei Guardiani della notte, che non vedevano l’ora di movimentare un po’ le proprie gelide giornate.

Chi non può permettersi di sperare nella posizione di dominio assoluto, cerca di accaparrarsi comunque un ruolo di rilievo. Questi individui mettono la propria spada a disposizione di colui che sembra essere il più forte e il favorito dalla sorte, pronti a cambiare idea e bandiera non appena questa decida di abbandonare il suo protetto.

E’ questa l’umanità che l’autore ci presenta, poche sono le eccezioni e, in gran parte dei casi, queste non raggiungono la maggiore età.

Lord Eddard Stark, primo cavaliere del re, ed unico con senso dell’onore e della giustizia abbastanza forti da poter tentare la risoluzione di questa drammatica situazione, è morto, decapitato per il capriccio di quel piccolo concentrato di perfidia che è Jeoffrey Lannister. I suoi figli, dispersi in diverse parti del regno, devono affrontare ciascuno un’immane battaglia, saltando a piè pari quella fase della vita chiamata infanzia, che non spetta più neanche a Rickon.

Il caos genera caos e l’espressione di tutta questa cattiveria risveglia antichi e pericolosi poteri e creature che si ritenevano esistere ormai solo nelle fiabe della vecchia Nan.

Evento, tutto sommato, necessario anche da un punto di vista prettamente narrativo, giacché l’intento dell’autore era quello di scrivere un fantasy, mentre, per la maggior parte del tempo, sono tipici esemplari di homo sapiens che se le danno di santa ragione ad essere protagonisti.

Completamente incoerenti i titoli italiani: non esiste nessun regno dei lupi e “regina dei draghi” non è che un appellativo con cui la gente al di là del mare usa riferirsi a Daenerys.

Abbiamo lasciato la giovane Kaleesi “madre” dei tre draghi nati dalle uova schiuse dal calore delle fiamme della pira del suo Khal Drogo, ma questo non basta a renderla una potente regina. Le sue uniche forze, oltre a queste creature mitiche ma appena venute al mondo, sono il fedele ser Jorah e i suoi guerrieri di sangue. Il resto del suo Khal è costituito per la maggior parte da vecchi, donne e bambini. Sono molte anche le difficoltà a cui deve andare incontro l’ultima dei Targaryen. Fortunatamente, non sono il carattere e la forza d’animo a mancarle.

Il finale è chiaramente aperto, per generare la giusta suspance che invoglia a proseguire la lettura. Aperto e amaro; si ha come l’impressione di veder morire Ned Stark per una seconda volta.

Dopo il successo ottenuto con “A game of thrones”, Martin convince ancora, di nuovo ha conquistato il mio favore ed il mio entusiasmo.

Ma la saga continua, alla prossima puntata.

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“Gatsby believed in the green light, the orgastic future that year by year recedes before us. It eluded us then, but that’s no matter—to-morrow we will run faster, stretch out our arms farther… And one fine morning –

So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past.”

Non credevo che sarebbe successo ma, come dice il saggio, “mai dire mai”.

Una volta tanto, ho apprezzato molto più la versione cinematografica che il libro stesso. Possibile?

Non credo che la colpa sia da riporre nella lingua. Ho infatti affrontato il testo in inglese, ma mi sono trovata davanti ad un linguaggio estremamente semplice e lineare, tanto da poter affermare con sicurezza di non essermi persa nulla.

Il romanzo ha, a mio parere, un andamento ascendente. Mi spiego.

L’inizio è piuttosto anonimo, privo di guizzi, in certi punti anzi, prende proprio una piega noiosa. La tentazione sarebbe quella di rinunciare. “Grazie Fitz, un’altra volta magari. Forse non sono pronta”. Ma poi ha il sopravvento l’orgoglio: perché farsi scoraggiare da un libro che non raggiunge le 200 pagine? Sia mai! In oltre ci sarà pure un motivo per il quale è annoverato tra i capolavori della letteratura americana. Abbindolata dalla perfetta logicità di quest’ultimo ragionamento, vai avanti.

[N.B. Ricorro all’uso del femminile perché sono una “signora” e riporto la mia personale esperienza]

Proseguendo con la lettura, questa si fa più accettabile, comincia davvero a succedere qualcosa, il che ti porta ulteriormente avanti, fosse solo per la forza della curiosità.

Ma sono i capitoli finali quelli che valgono la pena del viaggio. Intensi e drammatici quanto mai ti si saresti aspettata. Finalmente emerge lo scopo dello scrittore, finalmente i caratteri, fino a pochi momenti prima poco interessanti, si rivelano e regalano emozioni.

Un finale ineluttabile come il destino; ecco il vero capolavoro dell’opera di Fitzgerald.

Nonostante il tedio iniziale, fin da subito Jay Gatsby appare sulla scena come una figura intrisa di mistero ed emanante un fascino magnetico.

Al principio non è che un nome sulla bocca di tanti, quasi una leggenda. La sua prima apparizione la fa solo tramite la propria ombra tra gli alberi. Poi l’incontro, quasi casuale, con Tom, la voce narrante. Ma è durante il finale che si svela in tutto il suo essere: un uomo grande, elegante nel vestire come nei modi di fare, fragile e ingenuo come i suoi sogni e le sue aspettative. Non si può fare a meno di amarlo e compatirlo, nella sua ostinata fede verso le proprie illusioni.

Mi è oggi chiaro perché sia stato affidato a Robert Redford il difficile compito di portare questo complesso personaggio sul grande schermo.

Il modo di scrivere dell’autore è elegante e poetico quasi quanto il suo protagonista e il mondo del quale fa parte, fatto di feste, grandi palazzi, luci e vestiti sgargianti, in un’atmosfera anni ’20, va detto, talmente perfetta da essere quasi respirabile.

Concludendo, nel suo complesso, ammetto che questo libro è stato per me una delusione, ma è vero anche che non lo è stato in maniera totale, perché, quando tutto sembrava perduto, ha saputo inaspettatamente conquistarmi.

Una nuova rivisitazione cinematografica del dramma di Gatsby è attesa nel giro di pochi mesi; in essa Robert Redford sarà sostituito dal non certo meno grande Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan prenderà il posto di Mia Farrow. Chissà cosa quel pazzo visionario di Baz Luhrmann sarà riuscito a leggere tra le pagine di questo vecchio (ma neanche troppo) classico…

[Intanto ammirate qua sotto i due protagonisti “uscenti” in tutta la loro beltade e magnificenza 😉 ]

 

…Ma prima di vivere con gli altri, bisogna ch’io viva con me stesso: la coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza.

Si tratta di un acquisto recente, uno dei rari casi in cui non ho fatto attendere il libro tra gli scaffali di camera , prima di “percepire” che il suo momento era arrivato.

Quando l’ho visto in libreria, la sua copertina era abbracciata da una di quelle linguette di carta che di solito si usano per indicare la vittoria di un premio Strega o di qualche altro riconoscimento letterario. Un po’ quello che si fa anche con le persone: a miss Italia danno la fascia per indicare che lei è la più bella. Una sorta di monito, insomma, per indicare che quel testo è “superiore”.

In questo caso (per quanto sia stato vincitore del premio Pulitzer nello stesso anno di uscita) però la linguetta dichiarava che la lettura di tale libro è consigliata nientemeno che da Barack Obama.

Il perché l’attuale presidente degli Stati Uniti sia legato all’opera di Harper Lee è di facile intuizione, dato che il tema centrale è il razzismo nei confronti della gente di colore. E i pregiudizi in generale.

Quello che però rende importante questo libro, accanto al suo fulcro narrativo, è, come giustamente mi ha fatto osservare mia madre, la data di pubblicazione, il 1960.

All’epoca era infatti ancora in atto la segregazione razziale, il che significa che il punto di vista dell’autrice e l’enorme successo da lei avuto, rappresentano un grande piccolo passo in avanti nella storia.

E’ una delle letture più semplici che io abbia mai affrontato (dove il termine “semplice” non è sinonimo di “facile”), eppure una delle migliori e delle più sentite.

Tom Robinson, uomo di colore, viene accusato di violenza sessuale nei confronti di Mayella Ewell, una ragazza bianca e poco istruita.

La parola di un negro non ha valore contro quella di un bianco, qualunque cosa si dica, ma l’avvocato Atticus Finch decide di combattere lo stesso questa battaglia persa in partenza.

La mossa vincente usata da Harper Lee, è stata quella di affidare la narrazione e la trattazione di un tema tanto importante e delicato (ribadisco, ancor più a quell’epoca) ad una bambina, Jean Louise “Scout” , figlia di Atticus.

La piccola Scout ci racconta la vicenda vista dall’interno, ma attraverso lo sguardo dell’innocenza.

Se si mette un adulto a confronto con un altro adulto, per aprire lui gli occhi, nel 90% dei casi il risultato sarà nullo, in quanto troppo pieno di sé per anche solo prendere in considerazione il fatto che le cose possano essere diverse da come lui le pensa.

Solo un bimbo è in grado di svelare che “il re è nudo”, nonostante tutti gli abbiano raccontato che porta addosso meravigliose vesti e che per un po’ vi abbia anche creduto.

“Il biuo oltre la siepe” è anche un meraviglioso vecchio film in bianco e nero vincitore dell’oscar come miglior film nel 1962, in cui uno straordinario Gregory Peck riesce, senza bisogno di virtuosismi interpretativi, a rendere a pieno la grande forza morale dell’uomo, dell’avvocato e del padre che è Atticus Finch, conquistandosi anche lui un meritato premio oscar come miglior attore.

“Vuoi dire che se non difendi quell’uomo, Jem e io potremmo non darti più retta?”
“Più o meno.”
“Perché?”
“Perché non potrei più pretenderlo da voi. Vedi Scout, a un avvocato succede almeno una volta nella sua carriera, proprio per la natura del suo lavoro, che un caso abbia ripercussione diretta sulla sua vita. Evidentemente è venuta la mia volta. Può darsi che a scuola tu senta parlare male di questa faccenda, ma se vuoi aiutarmi devi fare una cosa sola: tenere la testa alta e le mani a posto. Non badare a quello che ti dicono, non diventare il loro bersaglio. Cerca di batterti col cervello e non con i pugni, una volta tanto… È una buona testa, la tua, anche se è dura a imparare!”
“Atticus, vinceremo la causa?”
“No, tesoro.”
“Ma allora, perché…”
“Non è una buona ragione non cercare di vincere sol perché si è battuti in partenza,” disse Atticus.”